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Guardare la schiavitù è eccitante?

Posted: Dicembre 21st, 2011 | Author: | Filed under: Documenti | Tags: , , , , | Commenti disabilitati su Guardare la schiavitù è eccitante?

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Questa è la domanda, decisamente provocatoria ma molto affascinante, proposta da Laura Agustin su The Naked Anthropologist.

Una interessante analisi punto per punto della recensione di The Life of a Courtesan scritta da Stephen Holden sul New York Times il 24 Novembre scorso.

Do people want slavery to come back? It would seem that the idea is erotically compelling, granting permission to imagine naked women and children in bondage, in chains, in the thrall of evil captors. With these scenarios, viewers and readers don’t have to think, because Good and Evil are clearly identified with no chance that contradictory uncertainties will muddy one’s reactions. The ferocity with which Kristof is defended is proof that some people will not tolerate any interesting human ambiguity at all (see hostile comments).

But are visions of enslavement also attractive? A new film about an elite brothel in 19th-century France was reviewed in an extraordinarily biased way in the New York Times (whose judgement on slavery issues is now officially in doubt). After sketching what sounds like a dark, subtle, moody movie, the reviewer concludes There is only one word to describe life inside L’Apollonide: slavery.

But the reviewer sounds as though he did not understand the film or its particular artistic vision. Being set mostly inside the brothel itself, any aspect of prostitutes’ lives outside are omitted. The filmmaker has limited the stage to the usual focus in depictions of prostitutes’ lives – the workplace where they perform. The reviewer sounds very naive about women’s lives in general, including today, if he doesn’t know that we get ‘poked at’ by ‘imperious male doctors’ and feel like ‘slabs of meat’. Et cetera. Whatever he chooses to describe about this film, his conclusion that it’s about slavery is just silly.

The Life of a Courtesan, Viewed From the Inside

Stephen Holden, 24 November 2011, The New York Times Read the rest of this entry »


Pinkwashing e l’uso di Israele dei gay come strumento di propaganda

Posted: Novembre 28th, 2011 | Author: | Filed under: Documenti | Tags: , , , , , , , , , , | Commenti disabilitati su Pinkwashing e l’uso di Israele dei gay come strumento di propaganda

Una campagna lanciata dal ministero del turismo israeliano per un costo di 90 milioni di dollari ha promosso Tel Aviv come meta internazionale di vacanze gay e lesbiche, presentando il paese come uno dei paradisi dei diritti.

L’iniziativa viene sul “New York Times” dalla scrittrice lesbica Sarah Schulman, che accusa il governo israeliano di “pinkwashing”, cioè di una “deliberata strategia di nascondere le continue violazioni dei diritti umani dei palestinesi dietro una immagine di modernità simboleggiata dalla vita gay in Israele”. I gay vengono usati come messaggio pubblicitario e propagandistico, come avviene in tutti i casi in cui viene praticata “la cooptazione di persone gay bianche da parte delle forze politiche anti-immigrazione e anti-musulmane nell’Europa occidentale e in Israele”. In altre parole, denuncia Schulman, i diritti lgbt vengono utilizzati dalle destre facendo leva sul razzismo e sulla xenofobia, e rendendo invece “invisibile il ruolo che i fondamentalisti cristiani, la chiesa cattolica romana e gli ebrei ortodossi giocano nel perpetuare la paura e persino l’odio nei confronti dei gay”.

La campagna turistica israeliana  sulla “international gay vacation destination” diventa nell’articolo di Schulman ” Israel and ‘Pinkwashing’ “, pubblicato il 23 novembre scorso, il punto di partenza per un’analisi di questo “nefasto fenomeno” sempre più diffuso nell’Europa xenofoba, e ora sfruttato come strumento propagandistico nel conflitto palestinese.

Il “paravento della modernità” occulta e manipola non soltanto le difficili conquiste della comunità lgbt israeliana, ma anche l’esistenza di forti organizzazioni lgbt in Palestina. Schulman conclude: “Ciò che rende lesbiche, gay, bisessuali, transgender e i loro alleati così esposti al pinkwashing – e al suo corollario, la tendenza tra gay bianchi a privilegiare la loro identità razziale e religiosa, un fenomeno che il teorico Jasbir K. Puar ha chiamato ‘omonazionalismo’ – è l’eredità emotiva dell’omofobia. La maggior parte dei gay hanno sperimentato l’oppressione in modi profondi: nella famiglia, in rappresentazioni distorte nella cultura popolare, nella sistematica disuguaglianza legale che solo adesso comincia appena a diminuire.

L’aumento dei diritti gay ha portato persone in buona fede a giudicare in modo errato quanto sia avanzato un paese in base alla sua reazione all’omosessualità. In Israele, i soldati gay e la relativa apertura di Tel Aviv sono indicatori incompleti dei diritti umani – proprio come, in America, l’espansione dei diritti gay in alcuni stati non controbilancia violazioni dei diritti umani come l’incarcerazione di massa. La realizzazione, a lungo sognata, di alcuni diritti per alcuni gay non dovrebbe renderci ciechi nei confronti delle lotte contro il razzismo in Europa e negli Stati Uniti, oppure della persistenza palestinese su una terra da chiamare casa”.

Sarah Schulman, nata nel 1958 a New York, romanziera, commediografa e saggista, da sempre politicamente impegnata nel movimento delle donne e in quello lgbt (è stata tra le fondatrici delle “Lesbian Avengers” nel 1992), ha suscitato con il suo articolo – che riprende alcune tesi del suo libro di prossima uscita “Israel/Palestine and the Queer International” – polemiche e lettere di risposta al giornale.

Vedi: New York Times – Pinkwashing and Israel use of gays as a messaging tool